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Adista News – Immigrazione. Perché le politiche si fanno beffe dei dati


Tratto da:

Adista Segni Nuovi
n° 41 del 30/11/2024

Lo scorso 29 ottobre, nella consueta cornice del Nuovo Teatro Orione di Roma (e in contemporanea in tutte le Regioni italiane), è stata presentata la 34.ma edizione, relativa ai dati 2024, del Dossier Statistico Immigrazione, curato dal Centro Studi e Ricerche IDOS, la rivista interreligiosa Confronti e l’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” e realizzato con il contributo dell’Otto per Mille della Tavola Valdese.

Il Dossier fotografa un quadro locale e internazionale per niente tranquillizzante sul fronte dei diritti delle persone che emigrano. I dati continuano a smontare chiaramente, anno dopo anno, i pregiudizi e le narrazioni d’odio relativamente ai flussi migratori: non c’è nessuna invasione, non c’è nessuna sostituzione etnica, i popoli subsahariani non si stanno trasferendo in massa nelle nostre città e non è in atto un processo di islamizzazione forzata delle società europee. Ma questo non sembra convincere le nostre classi politiche che attuano politiche migratorie sempre più ciniche, punitive e repressive e, malgrado ciò, stando ai sondaggi, continuano a mietere consensi nell’opinione pubblica del Paese e dell’Europa. Per contenere e respingere i migranti, tra l’altro, si spendono ingenti risorse pubbliche, come dimostra plasticamente il caso dei centri per migranti in Albania, sottratte a voci di bilancio ben più urgenti come sanità e scuola. Misure e investimenti di denari pubblici che non affrontano con lungimiranza “il problema” ma anzi alimentano un clima d’odio funzionale al mantenimento di un certo potere politico, inadeguato a offrire risposte convincenti sul fronte della crisi economica e sociale.

A distanza di qualche giorno dalla presentazione, Adista ha contattato il presidente IDOS Luca Di Sciullo, per scambiare con lui alcune impressioni, non tanto sugli illuminanti dati emersi nel Dossier 2024, quanto su questo clima di ostilità che monta in Italia e in Europa intorno alla questione migratoria, e sulle sue possibili soluzioni.

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IDOS compie 20 anni. Anni di lavoro rigoroso di ricerca scientifica e analisi statistica, nella convinzione che i numeri rappresentino un bagno di “realtà”, un antidoto alle ideologie, ai pregiudizi e alle propagande. Dopo 20 anni e 34 Dossier – di fronte al rafforzamento delle destre in Europa e nel mondo – forse dovremmo riconoscere che certe narrazioni siano più efficaci dei numeri e persino dei diritti statuiti? Insomma, obiettivo fallito almeno in Italia?

Certamente stupisce che le lenti deformanti con le quali ancora oggi la maggioranza dell’opinione pubblica guarda gli immigrati, non solo in Italia ma in moltissimi Paesi europei e occidentali, hanno talmente ammalato e, direi, accecato lo sguardo collettivo, da resistere, anche al di là di ogni ragionevolezza, alla sistematica decostruzione che i dati ne fanno. Concorrono, a questa impermeabilità, diversi fattori: non solo la potente forza d’urto e capacità di penetrazione di una propaganda politica che da 30 anni, cioè dalla seconda Repubblica a oggi, e con il supporto di un tutto un sistema di comunicazione compiacente, ha insistito in maniera martellante a dipingere gli immigrati come i responsabili di tutti i mali endemici del Paese (disoccupazione, perché sono loro a rubarci il lavoro; malasanità, perché sono loro a portarci malattie sconosciute; povertà, perché sono loro che vivono alle spalle degli italiani e che ci passano davanti nell’assistenza; criminalità, perché sono loro più propensi a delinquere; crisi della scuola, perché sono loro a costringere i docenti ad abbassare il livello didattico, ecc.); ma anche una parallela mutazione sociale e antropologica che, complice una cultura che sta sempre più sostituendo, anche grazie alle nuove tecnologie, la realtà e le relazioni virtuali a quelle concrete, isolando i singoli nella loro bolla di piccolo benessere individuale, ha reso le persone sempre meno capaci di relazione concreta ed empatia, di risonanza emotiva di quanto accade agli altri. E, nell’accorciare loro il futuro, la cui grave incertezza mina l’investimento in speranza, ha accorciato loro anche il passato, rendendoli insensibili alla memoria storica e a ciò che essa ammonisce di non ripetere più.

A chi giova tenere ai margini della società gli stranieri, negarne i diritti di asilo o di cittadinanza, rinchiuderli in centri di “detenzione” spacciata per accoglienza, respingerli esternalizzando le frontiere, sfruttarli come capro espiatorio dei mali sociali? In fondo il Paese chiede altro, e cioè un cambio di paradigma in termini di accoglienza, integrazione e inserimento lavorativo, ai fini demografici, produttivi e previdenziali. Perché i governi non ascoltano il mondo produttivo? Come si esce da questo corto circuito tra esigenze elettorali e esigenze economiche e sociali del Paese?

Il fatto che i governanti di turno, da oltre un quarto di secolo, varino politiche sempre più restrittive e ultimamente anche vessatorie verso i migranti, a dispetto del sempre più drammatico fabbisogno demografico, produttivo, previdenziale e sociale degli stranieri, nasconde evidentemente ragioni di opportunismo tanto più forti e strutturali. Allo stato attuale, creare e tenere intatta, nel tempo, una categoria sociale priva di diritti e tutele, e quindi più inerme ed esposta ad abusi e sfruttamento, risponde a interessi trasversali e plurimi della società: innanzitutto quello delle classi politiche al potere, che così possono additare alla collettività, dopo averlo opportunamente reso incapace di reagire e difendersi, un capro espiatorio di tutte le disfunzioni endemiche del Paese che esse stesse sono incapaci di risolvere: scaricando su una vittima sacrificale tutta la responsabilità di questi mali interni, possono così salvaguardare il loro potere nonostante la loro inettitudine. Ma avere una simile categoria “di scarico” è anche interesse della classe media della società che, dalla grande impresa fino alla famiglia della porta accanto, si trova così a disposizione un serbatoio di manodopera a basso costo ricattabile e da sfruttare, per ammortizzare le dinamiche di impoverimento che le crisi e i processi produttivi hanno esercitato maggiormente proprio sulla classe media. E poi è anche interesse delle classi sociali più svantaggiate ed emarginate, che possono anch’esse “scaricare” e sfogare sugli immigrati, come su un oggetto sostitutivo fornito loro dai potenti stessi, tutta la rabbia sociale cumulata per frustrazione, in decenni in cui le loro rivendicazioni sociali sono rimaste inascoltate dalle classi dirigenti. Il che realizza quella “torsione del conflitto sociale” di cui parla Ferrajoli, che consiste nel ritorcere verso il basso, sui più poveri di sè, la indignazione e la rivendicazione dei propri diritti che normalmente i poveri indirizzano verso l’alto, ovvero verso chi detiene il potere, creando appunto la cosiddetta “guerra tra poveri” o “tra poveri e impoveriti”.

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Scorrendo i social network, di fronte alle notizie di stragi del mare, morti sul lavoro, diritti negati, non è difficile rintracciare una vasta platea di utenti indifferenti o persino compiacenti: il discorso d’odio contro i migranti in rete mette i brividi, sembra ormai sdoganato e non viene arginato o sanzionato, anzi spesso si direbbe incoraggiato da infelici esternazioni di rappresentanti delle istituzioni. Dove ci porterà questa ondata d’odio? E che strumenti abbiamo per fermarla?

In oltre mezzo secolo di storia dell’immigrazione in Italia abbiamo visto montare in gravità i sentimenti collettivi verso i migranti, che sono passati dall’iniziale diffidenza e sospetto, alla paura, all’inimicizia, al livore, all’odio e ultimamente alla cinica indifferenza – che, se possibile, è anche peggio dell’odio – fino all’ultimissimo gradino, che è l’assuefazione verso ogni forma di violenza, anche brutale e omicida, perpetrata verso un migrante, sia esso in mare, nel deserto, su una rotta terrestre o sul marciapiede sotto casa. È il segnale di un mutamento antropologico indotto da decenni di demonizzazione degli immigrati, secondo le logiche e gli interessi che dicevamo prima; demonizzazione che ha riguardato di pari passo, senza che se ne accorgesse, anche chi la compie verso gli immigrati, ovvero le ampie parti razziste della società civile. Si realizza così quel che Bloch diceva del popolo tedesco ai tempi del nazismo: la trasformazione in demoni di persone comuni. L’esperienza insegna che per opporsi efficacemente a questa grave deriva umana occorre creare e salvaguardare quanti più spazi di incontro fisico, reale, direi “tattile”, con gli immigrati, in cui sia possibile un incontro vero con loro, diretto e personale: spazi di dialogo a tu per tu, vis-a-vis, in cui la relazione fa scoprire quanto di comune in realtà “noi” e “loro” condividiamo, in quanto fatti della stessa pasta umana: abbiamo le stesse paure, le stesse speranze, le stesse preoccupazioni, e ci danno gioia le stesse cose, come ci rattristiamo per gli stessi eventi, tutti squisitamente umani e in comune.

Da qui di solito nasce un senso di solidarietà capace di demolire in un sol colpo tutti i pregiudizi negativi che possiamo avere prima di incontrare davvero un immigrato.

Facciamo un esercizio di fantasia (che poi è anche un appello alle istituzioni): se oggi tu fossi al governo, chiamato a guidare una task force per attuare provvedimenti e riformare le politiche migratorie in Italia, quali misure urgenti metteresti in agenda per una gestione lungimirante, utile al Paese e rispettosa dei diritti dei migranti regolari e forzati?

È un esercizio di fantasia alquanto impegnativo (ride), vista la piega bipartisan che tutti i governi – chi con parole e opere, chi con omissioni – hanno seguito in materia di politiche migratorie negli ultimi 26 anni, ovvero dal varo del Testo Unico in poi, perseguendo una sorta di “pensiero unico” trasversale sulle migrazioni che certo non collide con l’ottica che personalmente condivido con tanta parte di studiosi, organizzazioni del terzo settore, sindacati e cittadini che hanno a cuore le ragioni di una società aperta, plurale e integrata.

Tra le molte cose cui mettere mano, menzionerei almeno queste: promuoverei un gruppo di lavoro qualificato e multipartisan per riscrivere il Testo Unico, che dopo 26 anni in cui ha subìto ben 60 modifiche normative (cui si aggiungono le 15 apportate ai decreti attuativi) è diventato un patchwork legislativo, non solo aggrovigliato e incoerente per questa stratificazione di interventi, ma anche vecchio e inattuale nel suo impianto generale.

In particolare collegherei la programmazione dei flussi per lavoro al fabbisogno effettivo di manodopera aggiuntiva, ma abolirei sia il sistema delle quote, insostenibile dalla nostra burocrazia, sia l’irrealistica chiamata nominativa al buio dall’estero, sia il cinico meccanismo dei click day; ripristinerei il permesso di ingresso per ricerca lavoro, sganciando la regolarità del soggiorno dal contratto di lavoro, e abolirei inutili obblighi come la previa verifica di manodopera italiana disponibile o l’asseverazione di sostenibilità economica dell’assunzione, a pagamento.

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Abolirei anche l’assurda elevazione a reato dello stato di irregolarità giuridica degli immigrati, annullando così a cascata sia la loro detenzione amministrativa, sia il violento e inefficace istituto dei Cpr, ma prevedendo permessi di reintegrazione sociooccupazionale, connessi a percorsi di reinserimento legale, per tutti gli immigrati che cadono in stato di irregolarità, così da assorbirne definitivamente la sacca di mezzo milione mai ancora eliminata dalle regolarizzazioni di massa.

Abolirei la procedura accelerata delle domande di protezione alla frontiera, ma consentirei – in obbedienza al diritto internazionale – l’ingresso in Italia a tutti i profughi che intendano farne una, chiudendo i centri in Albania e istituendo con la marina militare piuttosto una missione di ricerca e salvataggio sul modello della vecchia Mare Nostrum, in cui cercherei di coinvolgere tutti gli Stati Ue interessati dalle rotte del Mediterraneo.

Revocherei unilateralmente i memorandum d’intesa con governi e clan di potere libici e con la Tunisia e il Niger, mentre istituirei centri di accoglienza per la presentazione delle domande d’asilo al terminale italiano della rotta balcanica, sulla quale interromperei il sostegno italiano all’azione violenta delle polizie coinvolte nei respingimenti a catena.

Infine, unificherei il Sistema nazionale di accoglienza secondo un unico modello, quello virtuoso dei progetti Sai, gestiti dai Comuni secondo un’ottica di accoglienza diffusa e con percorsi di inserimento e integrazione. In questi progetti includerei anche i richiedenti asilo, prevederei norme più stringenti per l’adesione dei Comuni alla rete Sai e limiterei drasticamente i Cas, la cui gestione affiderei a realtà locali di comprovata esperienza e professionalità. 

*Foto presa da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza 

 

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