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Le due facce della vittoria del Pd in Emilia-Romagna


Come il Pd ha potuto stravincere in Emilia-Romagna perdendo 110 mila voti. Il commento di Damato pubblicato su Libero.

Solo a ”urne mezze vuote” – come ha titolato l’insospettabile Fatto Quotidiano per darsi una ragione del crollo elettorale di Giuseppe Conte, “il migliore presidente del Consiglio” italiano dopo Camillo Benso di Cavour o, più recentemente, “il politico più incompreso nel mondo” – può accadere ciò che si è visto in Emilia-Romagna, e in misura minore anche in Umbria. Una specie di replica blasfema del miracolo di Cana, dove Gesù trasformò l’acqua in vino, o di quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Quando lo stesso Gesù fece saziare con 5 pesci e 2 pani all’uopo moltiplicati, appunto, cinquemila persone che alla fine lasciarono 12 cesti pieni di avanzi.

Nella sempre rossa Emilia-Romagna, più ancora – ripeto – che nell’Umbria tornata a sinistra, il Pd ha raggiunto un quasi autosufficiente 43 per cento, pur avendo perduto 110 mila voti rispetto alle precedenti elezioni regionali, in cui aveva preso il 34,7 per cento. Per non parlare del 28,1 per cento preso nelle elezioni politiche generali di poco più di due anni fa, quando si ebbe un’affluenza nazionale alle urne di quasi il 64 per cento, contro il 46,4 regionale di lunedì scorso.

Con tutti questi numeri più o meno da capogiro non voglio contraddire, per carità, il mio amico Stefano Folli che su Repubblica ha scritto che in entrambe le ultime prove elettorali di quest’anno “senza dubbio ha vinto il Pd uscendo dalla malinconia che sembrava un destino ineluttabile” dopo il voto ligure del mese scorso. Che tuttavia aveva gratificato il Nazareno, pur nella sconfitta del campo della sinistra dal quale Conte, sempre lui, aveva reclamato e ottenuto l’espulsione dei rappresentanti pur senza simbolo del partito dell’odiatissimo Matteo Renzi. Prudentemente tollerato poi sia in Emilia- Romagna sia in Umbria.

Voglio solo relativizzare, diciamo così, l’entusiasmo di Francesco Bei. Che sempre su Repubblica, sventolando metaforicamente le braccia come Elly Schlein fra Bologna e Perugia, ha scritto dei voti del Pd che “ricordano la veltroniana vocazione maggioritaria” delle origini, “persino troppo alti – ha scritto sempre Bei – per un partito che vuole essere testardamente unitario, come dice Schlein, e che finisce per fagocitare i suoi alleati, ridotti a cespugli”.

Cespugli tuttavia festosi, visto il buon viso una volta tanto opposto al cattivo gioco dall’ex presidente del Consiglio ancora pentastellato. Che non è corso a raggiungere la Schlein a Perugia, rimanendo a Roma, non per evitare di abbracciarla e baciarla ma solo per restare inchiodato alla croce, o quasi, dei preparativi dell’assemblea costituente o ricostituente del suo movimento, che ormai non viene più votato neppure dal fondatore, garante e quant’altro Beppe Grillo quando gli viene offerta l’occasione di andare alle urne, come il mese scorso nella sua Liguria.

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Ora, festa a parte e a distanza proclamata a mezzo stampa per la vittoria di Stefania Proietti nella corsa alla presidenza dell’Umbria, per Conte sarà forse più difficile del previsto fronteggiare il dissenso, a dir poco, di Grillo e fedeli superstiti da un rapporto di alleanza pur non sistemico o organico col Pd. In cui l’ex primo partito italiano delle elezioni del 2018, da cui scaturirono due governi di Conte di segno o colore opposto, gialloverde prima e giallorosso poi, assomiglia un po’ a qualcuno, appunto, dei cespugli cresciuti alla fine della cosiddetta prima Repubblica attorno alla Quercia di Achille Occhetto.

Ad avere problemi comunque dopo le elezioni in Emilia-Romagna e in Umbria, e in vista delle altre regionali e amministrative dell’anno prossimo, non è soltanto il malmesso Conte. È anche la Schlein, che specie dopo avere detto al Corriere della Sera di avere “un profilo chiaro e forte”, oltre che il solito “spirito unitario”, non ha più la possibilità di giustificare fra le mura del Nazareno, ma anche fuori, sino al Quirinale, il carattere radicale della sua opposizione perché assediata, incalzata e quant’altro da un concorrente insidioso e pericoloso come Conte. Per niente rassegnato all’idea di un’alternativa pur improbabile ancora al centrodestra trainata da lui come candidato a Palazzo Chigi. Una opposizione, quella della Schlein, che ha appena strizzato l’occhio, a dir poco, all’ostracismo contro una delle vice presidenze esecutive della nuova Commissione Europea perché assegnata da Ursula von der Leyen al ministro del centrodestra italiano Raffaele Fitto. Inviato e salito giorni fa al già ricordato Quirinale per raccogliere la stima e l’incoraggiamento del presidente della Repubblica.



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