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la giustizia e la verità in fondo alla strada del dubbio


In un percorso interpretativo simile a quello possibile nell’arte figurativa, accade che in un film siano talvolta gli indizi, le didascalie, le periferie dello sguardo, il vero epicentro della narrazione. Chi guarda, se non stabilisce limiti allo sguardo, ritrova più piani di lettura anche nella storia più comune, perché è proprio la natura stesso dell’atto artistico a giustificare la sovrapposizione di simboli, significati, distopie.

Giurato Numero 2 di Clint Eastwood dunque non è solo un buon thriller giudiziario misurato ed asciutto, secondo i canoni della Vecchia Scuola e del miglior cinema indipendente americano: va oltre, creando un prezioso controfilm della psiche, inquietante e crudele, secondo una scelta di eleganza stilistica e spessore di immagini e scrittura.

In questo vanno rimarcate la grande attenzione posta nel disegnare i caratteri dei personaggi e la rigorosa costruzione dei dialoghi realizzate dallo sceneggiatore Jonathan Abrams. Il film parte dalla serenità di un quotidiano conquistato con difficoltà, generando continue incrinature, in un climax impalpabile e vorticoso come un fiume sotterraneo. Per innovare un genere molto frequentato da cinema e letteratura statunitensi, l’Eastwood regista si conferma persona altra dal Clint attore, lavorando su atmosfere crepuscolari anche quando è in luce giorno, e su scenari in interni, volutamente circoscritti.

La camera, la casa, il locale notturno, la corte, il carcere, sono arene ideali per il gioco dei sentimenti, che vengono sempre usati con delicatezza e verosimiglianza. Giurato Numero 2 si presta a essere il racconto di una sconfitta collettiva, sotto la sferza di una situazione limite che riunisce in una sola persona chi giudica e chi dovrebbe essere giudicato.

Interazioni psicologiche, ambienti e conflitti fondano la vicenda di Justin Kemp e di sua moglie Ally per raccontare plasticamente il crollo di ogni certezza familiare, di diritto e politica nell’America di inizio Millennio. In questo caso visivamente appare come un segnale al pubblico, prima ancora che al protagonista, il rombo giallo nella notte di Savannah: non più solo un cartello di pericolo per l’attraversamento di animali selvatici, ma una reale ammonizione, a non perdersi, a non smarrire il senso delle cose che contano, per il tempo di un messaggio in chat, per una lite eccessiva, per la paura di accettare la vita.

Il Deer Crossing pare sottolineare dunque non solo il vero incidente scatenante alla base della vicenda filmica, ma l’angoscia di risvegliarsi bruscamente in un Paese estraneo, dove il giudizio possa essere vendetta, narcisismo, ignoranza delle cose. In metafora, una notte fosca di pioggia fitta sulla statale vale il dubbio che lo stesso protagonista agita, agli altri come a sé stesso, di fronte a una giuria popolare apparentemente sicura delle proprie convinzioni, e poi invece profondamente divisa e distante.

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Progressivamente, il viaggio all’inferno di Justin tocca le sponde dell’etica, della verità, ma anche del senso di autoconservazione, fino a generare un tremendo cortocircuito esistenziale tra dovere di giustizia e sopravvivenza, speranza del domani e pregiudizio. In questo senso il suo sguardo, oltre la limpida superficie degli occhi azzurri, nasconde, celati insieme dal silenzio, un baratro non ancora del tutto superato, la gratitudine di essere stato compreso, la paura di distruggere un innocente, ma anche la voglia folle di fuggire dal presente.

La nomina della giuria popolare chiamata a giudicare innocenza o colpevolezza di un indagato per omicidio è quindi abilmente usata in scrittura e in regia per raccontare, tra funzionamento e inceppi, la macchina giudiziaria vista dall’interno, con le storture tra politica e pubblica accusa, ruolo del difensore e composizione della giuria, qualità delle indagini e ruolo del giudice. Sullo sfondo, però, come detto, prendono compiutamente corpo gli spettri dell’odierna società americana e del suo sud più profondo in particolare: l’autotutela, l’incultura, la diffidenza, il giustizialismo a tutti i costi nella visione del tempo che passa come oppressione e non come esperienza.

Se non fosse un thriller asciutto e misurato, complici anche i paesaggi della Georgia, Giurato Numero 2 si presterebbe a essere considerato un saggio sulle aspettative degli americani medi, sulla loro idea, negli anni sempre più minimalista e pessimistica, circa l’impossibilità di realizzare il diritto a essere felici.

E se in Italia il film ha scatenato un acceso e pregevole dibattito su temi importanti quali procedure e garanzia, indizi di colpevolezza e completezza d’indagine, è anche merito di un cast di attrici e attori mai fuori fuoco, tra cui vanno menzionati il giurato in conflitto Nicholas Hoult, sua moglie Zoey Deutch, combattuta tra maternità e paura dell’ignoto, Toni Collette, la Procuratrice Distrettuale che trova il coraggio di sconfiggere le sue certezze e lasciare indietro le sue ambizioni per inseguire la verità, fuori dalle strade più battute.

Sotto la mano di Eastwood, i personaggi, anche quelli di contorno, si mostrano vivi, e ben incamminati sulla strada della loro crescita: chi di fronte all’errore, chi incontro alla consapevolezza, chi verso la dannazione.



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